L’alpinismo che non esiste
“Più tardi il detto ‘Cavalcare una tigre senza poter scendere ’ (騎虎難下) è diventata un’espressione molto usata. Significa affrontare un dilemma rimanendo bloccati in una difficile posizione senza via d’uscita fino alla fine”
Appeso su tre chiodi appena ribattuti guardo e riguardo dall’alto l’articolato traverso che separa me e Claudio. Siamo proprio sopra al pancione di “Cavalcare la Tigre” dove, non molto tempo fa, scendendo dal sentiero che porta al Franchetti, avevo visto una cordata di due coraggiosi uomini volteggiare su quella placca fatta di buchi e rughe che contraddistinguono le bellissime pareti del Corno Piccolo.
Vedendoli mi ero emozionato così tanto che dentro di me scattò subito il desiderio di salire quella linea magica per cercare l’equilibrio su quella roccia tanto strapiombante.
E’ passato meno di un anno e con Claudio scegliamo una giornata con un tempo quasi perfetto per realizzare questo sogno.
La giornata inizia presto: sveglia alle quattro e trenta, colazione, prima seduta al bagno e si parte da Intermesoli verso la Piana del Laghetto dove inizia la bellissima cresta dell’Arapietra. Lungo la strada tutto tace e il silenzio riempie qualsiasi cosa ci sta intorno, compreso il cielo sereno che ci sovrasta. Anche tra noi c’è silenzio, quel silenzio che precede qualcosa di importante ed è segno di intesa.
Lasciata l’auto ci avviamo lungo il sentiero dell’Arapietra mentre il sole sta sorgendo alle nostre spalle, tingendo di rosso il mare non così lontano e i prati che ci circondano, irraggiando e illuminando anche i manti di un gregge di pecore che ancora è sopito in silenzio.
Siamo abbastanza veloci e dopo aver lasciato uno dei due zaini nascosto tra due massi proseguiamo per l’ultimo tratto di sentiero fin quando deviamo a destra, tra i grandi massi e detriti che si trovano alla base della parete est, in direzione della grotta delle Cornacchie.
A destra di questa, poco prima di entrarvi, sale un canale di rocce ed erba, prima abbastanza in verticale, poi diventa appoggiato e si traversa di nuovo verso destra.
Togliamo diverse ragnatele e arriviamo alla fine dello zoccolo, in corrispondenza della prima sosta.
La camminata di avvicinamento ci ha distolto dall’agitazione che solamente il nome della via che stavamo tentando di salire ci faceva venire.
Ora però si inizia a scalare veramente e quell’emozione si trasforma tutta in una grande concentrazione che ci porta ad assaporare ogni tiro della via.
Non trovo la sosta successiva, poco conta perché incastro due friend e faccio salire Claudio. Forse sono stato leggermente a sinistra ma la roccia era meravigliosa e comunque per raggiungere la parete gialla alla base del pancione da lì bisogna passare.
Riparte Claudio che affronta il primo di due traversi molto esposti, intervallati da una cengia molto comoda sulla quale ci fermiamo a bere.
Siamo sotto “Viaggiatore Incantato” e poco più in là si trova “Cavalcare la Tigre”. Scrutiamo questo tratto di parete e parliamo del da farsi. Su vie come queste niente può essere dato per scontato e una volta superato il punto di non ritorno ci si può affidare solo a se stessi e cercare un qualsiasi modo per uscire dalla parete.
Ora tocca di nuovo a me, affronto il secondo traverso per nulla banale, e finalmente ci troviamo proprio sotto al famoso pancione, riconoscibile dalla caratteristica fessura ad arco che incide la parete ed indica la via da seguire.
Riparto con le migliori intenzioni ma non ho la minima idea dell’enorme fatica che dovrò fare per superare questo tiro eccezionale. La fessura si fa via via più stretta, più strapiombante e più problematica.
Ci sono chiodi e qualche spit roc abbastanza distanziati tra loro. Prendo la mia piccola staffa auto costruita le sere prima e provo ad imitare gli alpinisti leggendari visti nelle foto in bianco e nero.
Arrampicare in questo modo per me così strano è estenuante e per nulla facile.
Per giungere al termine del tiro devo piantare ben tre chiodi, incastrare nut e friend.
Per superare tutte queste difficoltà impiego un tempo infinito durante il quale Claudio mi sostiene, ma io so che sono solo e i dubbi iniziano ad attanagliarmi continuamente. È una lotta interiore con me stesso prima, con la roccia poi.
La curiosità di vedere oltre la fessura, chiodo dopo chiodo, è però irresistibile e sopprime il grande sforzo fisico al quale sono sottoposto. In più, ogni tanto il vento soffia dal basso verso l’alto e porta alle mie orecchie le voci degli escursionisti che ci osservano, proprio come io vidi quei due alpinisti.
Allora mi catapulto dalla parte dello spettatore che ero stato e ripenso a come quella cordata mi avesse regalato una grande emozione e un sogno che ora doveva essere realizzato. Decido che anche io avrei fatto lo stesso. Ritorno in me rinvigorito da uno scatto d’orgoglio e un chiodo alla volta riesco a risalire e terminare la fessura ad arco. Sono in sosta.
Faccio salire Claudio che impiega altrettanto tempo per raggiungermi. Ora bisogna arrampicarsi per una ventina di metri per giungere infine all’inizio del famigerato traverso, il tiro chiave. Riparto ma immediatamente la spia del pericolo si accende: inserendo il rinvio nel primo chiodo che sta a poco più di un metro dalla sosta mi accorgo che qualcosa non va.
Gravato dal peso del rinvio il chiodo si inclina leggermente, un movimento quasi impercettibile del quale però riesco ad accorgermi. Sospettoso non passo la corda ma tocco con mano il chiodo che senza nessuna resistenza si sfila dalla roccia e mi resta in mano. Non so con quale freddezza sono riuscito a mantenere la mente lucida e impugnato il martello ho rimesso il chiodo al suo posto, facendo risuonare il ferro per tutta la parete Est.
Di nuovo in sosta, di nuovo a guardarci negli occhi. Tanta fatica fatta per arrivare fin qui e ora tornare indietro? Decidiamo di proseguire.
Il traverso è bellissimo: si sale, si scende e si sale ancora, tutto verso sinistra. Ci sono pochissime protezioni, dove servono e fanno il loro dovere. Infatti, per il dolore ai piedi dovuto alle scarpette indossate per troppo tempo, cado ben due volte ad un passo dal “rigolo” chiave. Non sapevo se il nut incastrato avesse retto oppure no, quello che sapevo è che mi sentivo libero da ogni pensiero e così leggero da poter danzare sulla roccia, come se il volo facesse parte della mia performance artistica. La terza volta è però quella buona. Riesco finalmente a passare, prendo due ottimi buchi e Claudio immortala il tiro. Finisco il traverso che continua a non essere scontato e veloce risalgo in dülfer una fessura verticale che mi porta in cima al pulpito dove si trova la sosta. Che gioia!
Faccio cenno a Claudio di poter venire e con qualche difficoltà mi raggiunge. Ci godiamo alcuni minuti di felicità da questa postazione così privilegiata. Mangiamo un pezzetto di formaggio e per poco Claudio non si strozza. Che scherzo del destino sarebbe mai stato!
Guardiamo per l’ultima volta il traverso e decidiamo che è ora di ripartire. Adesso le difficoltà calano ma l’arrampicata non è mai scontata e tra un passaggio e l’altro incontriamo ancora qualche difficoltà. L’arrampicata è sicuramente piacevole ma fino ad un certo punto, sia perché stiamo finendo le energie fisiche e mentali, sia perché in lontananza nuvole promettono pioggia. Infatti gocce d’acqua arrivano al penultimo tiro che è caratterizzato da una bellissima e lunghissima lama a forma di sega che si stacca dalla parete. Pochissime volte si incontrano delle formazioni rocciose così eleganti. L’arrampico veloce mettendo le mani sul bordo e tenendo i piedi in aderenza fuori della spaccatura.
Per fortuna la pioggia smette quasi subito e Claudio si gode questa splendida roccia più di me. Un’ultima difficoltà e siamo finalmente in cima alla cresta Nord Est del Corno Piccolo.
Siamo stanchi ma abbiamo la consapevolezza di esserci regalati un’avventura unica. Iniziamo a scendere la cresta con la speranza di aver ispirato le persone che ci guardavano dalla mattina.
Siamo alla base della parete quando ormai è buio e oltre alla luce della nostra frontale che illumina il sentiero c’è la luna, quasi piena, che fa da guardia al Gran Sasso.
Simone Botticelli